Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo o “economico” rappresenta sicuramente il caso più ricorrente di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Ciò in considerazione della crisi economica che, ormai da quasi un decennio, attanaglia il Bel Paese, situazione che solo negli ultimi tempi sembra dare qualche timido segnale di inversione di rotta.
Qui di seguito, cercheremo di analizzare i diversi passaggi del procedimento di licenziamento per gmo.
Il licenziamento per motivi economici
Da quando la crisi economica, a partire dal 2007-2008, ha preso piede nel nostro Paese, diventando negli anni seguenti una situazione ormai strutturale, una parte del sistema imprenditoriale italiano si è sfaldato o ha comunque ridotto la propria attività e i timidi segnali di ripresa dell’occupazione, merito più che altro dei periodici sgravi e incentivi, non sembrano ancora invertire in maniera convincente la tendenza. In questo quadro, la limitazione dei costi e la ricerca di una più efficiente organizzazione hanno rappresentato, per le imprese, una necessità imprescindibile, che ha avuto pesanti ricadute sui livelli occupazionali, che in Italia, attualmente, sono ancora molto lontani dai livelli pre-crisi.
In tale contesto, il licenziamento individuale per gmo – ovvero quello regolato dall’art.3 L. n.604/66 e determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa – rappresenta, per il datore di lavoro, lo strumento idoneo per la risoluzione del contratto a tempo indeterminato in caso di necessità di soppressione di posizione lavorativa. Pare superfluo ricordare che, qualora il numero dei licenziamenti che l’imprenditore ritenga di mettere in atto sia almeno 5 nell’arco di 120 giorni, è obbligatorio il ricorso alla diversa, specifica procedura di licenziamento collettivo, regolata dalla L. n.223/91.
Con la presente circolare si esamineranno le regole proprie del licenziamento individuale c.d. per motivi economici, nel quale la riduzione della forza lavoro non richieda, quindi, la complessa procedura di mobilità.
I presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La legislazione che regola il fenomeno del licenziamento distingue, come noto, la fattispecie risolutiva del rapporto di lavoro nelle ipotesi disciplinari (per giusta causa e giustificato motivo soggettivo) dai licenziamenti per gmo, individuati dall’art.3, L. n.604/66, in quelli determinati da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
All’interno di tale categoria del gmo, si suole tradizionalmente distinguere i licenziamenti per motivi economici (ovvero quelli relativi all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro) dalle altre ipotesi (connesse a ragioni inerenti al regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro).
In tale tipologia, vanno annoverati:
- i licenziamenti per superamento del periodo di comporto, ovvero il lasso temporale nel quale il dipendente ha diritto alla conservazione del posto di lavoro in caso di malattia o infortunio;
- il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica permanente allo svolgimento delle mansioni;
- la risoluzione del rapporto per stato detentivo del lavoratore;
- il licenziamento per perdita di titolo abilitativo (si pensi alla revoca della patente di guida per gli autisti);
situazioni che di fatto non consentono al lavoratore di svolgere la propria attività lavorativa.
Concentrandosi sulla fattispecie sicuramente più frequente, ovvero il licenziamento per motivi economici, occorre individuare quali siano per il datore di lavoro i presupposti per poter procedere legittimamente al licenziamento; come detto, la norma cardine è rappresentata dal già ricordato art. 3, L. n. 604/66: essa prevede che il licenziamento per gmo sia determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Bisogna, quindi, preventivamente individuare quale sia il significato della norma e quali siano i limiti della facoltà di recesso dell’imprenditore, che, nel caso di eventuale impugnazione del licenziamento, ha, come noto, l’onere della prova della sussistenza dei motivi del licenziamento stesso.
In presenza del laconico dato normativo è stata la giurisprudenza a individuare i limiti del potere di recesso datoriale dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato; si sono, quindi, stabiliti i seguenti principi:
- il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà d’iniziativa economica tutelata dall’art.41, Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore;
- non è quindi sindacabile, nei suoi profili di congruità e opportunità, la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato;
- nell’eventuale giudizio di impugnazione del licenziamento, l’onere di dedurre e di dimostrare l’effettiva sussistenza del motivo addotto è a carico del datore di lavoro; quindi, nell’ipotesi di licenziamento riconducibile a un riassetto organizzativo dell’impresa, quest’ultima deve dare conto delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto, oltre che del nesso di causalità con il licenziamento;
- il riassetto organizzativo dell’azienda può essere attuato anche al fine di una più economica gestione dell’impresa, finalizzata a far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva.
Recentemente, però, è stato affermato che, anche in assenza di situazioni di difficoltà economiche o crisi del datore di lavoro, il licenziamento per gmo può essere considerato legittimo, perfino quando la riorganizzazione è attuata per aumentare i profitti dell’impresa: ciò in considerazione del fatto che un aumento del profitto si traduce non solo in un vantaggio per il suo patrimonio individuale, ma, principalmente, in un incremento degli utili dell’impresa, ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori.
In sintesi, quindi, deve ritenersi che, in tema di licenziamento per gmo, restano insindacabili – anche in considerazione dell’introduzione nell’ordinamento giuridico delle disposizioni contenute nell’art.30, L. n.183/10 – e ragioni e le modalità della scelta effettuata dall’imprenditore per fare fronte alle esigenze obiettive che si presentino nell’impresa, potendosene solo vagliare il rapporto di causa-effetto con le ripercussioni sui rapporti di lavoro, conseguenze che devono comunque essere oggettivamente verificabili.
In tale contesto, ogni ragione addotta dal datore di lavoro, purché lecita, seria, dimostrabile e che abbia conseguente riflesso sul rapporto di lavoro che viene meno, può essere adottata dall’imprenditore nell’ambito di un licenziamento per gmo.
Tali principi sono validi sia per i licenziamenti intimati nei confronti di dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 sia per quelli assunti dopo, poiché il contratto a tutele crescenti, introdotto, nell’ambito del Jobs Act dal D.Lgs. n.23/15, ha inciso appunto sulle tutele in caso di licenziamento illegittimo, non sui suoi presupposti.
La formalizzazione del licenziamento per gmo
Verificati i presupposti di cui sopra, il datore di lavoro, per quanto riguarda la formalizzazione del licenziamento per gmo, occorre che valuti preliminarmente sia la categoria di appartenenza del lavoratore sia la data di assunzione e le dimensioni dell’impresa. Bisogna premettere che qualsiasi licenziamento deve essere intimato per iscritto, in base all’art.2, co.1, L. n. 604/66: il licenziamento orale è, infatti, considerato tamquam non esset, con le piene conseguenze reintegratorie dettate dall’art.18, co.1, L. n.300/70, e dall’art.2, D.Lgs. n.23/15, a prescindere dalle dimensioni del datore di lavoro e dalla data di assunzione, applicandosi la forma scritta anche al licenziamento dei dirigenti.
Mentre per gli assunti pre-Jobs Act dipendenti di aziende in “stabilità reale”, il licenziamento per gmo deve essere preceduto dalla procedura prevista dall’art.7, L. n.604/66, sia per i “vecchi assunti” in “stabilità obbligatoria” che per tutti i “nuovi assunti” dal 7 marzo 2015 (a prescindere dalle dimensioni aziendali), non vi è alcun obbligo di far precedere tale tentativo di conciliazione al licenziamento.
La lettera di licenziamento, oltre alla forma scritta, deve contenere – in base all’art.2, co.2, L. n.604/66 – la specificazione dei motivi che lo hanno determinato: tale disposizione impone, pertanto, l’obbligo a carico del datore di lavoro di contestuale e specifica motivazione del licenziamento, essendo stata eliminata la possibilità della comunicazione differita dei motivi del licenziamento a richiesta del lavoratore, prevista prima dell’entrata in vigore dalla L. n.92/12. L’esercizio del potere di recesso del datore di lavoro con atto motivato comporta necessariamente l’immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento: tale regola ha carattere generale, operando come fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore. Infatti, la motivazione del licenziamento è funzionale alla tutela del principio di immodificabilità della contestazione dei motivi del recesso, nel senso che delimita la materia del contendere, precludendo al datore di lavoro di introdurre in giudizio fatti nuovi o elementi diversi, se non meramente confermativi o di contorno di quelli già esposti.
Ciò non implica, tuttavia, che la motivazione debba essere specificata in tutti i suoi elementi di fatto e di diritto all’atto del licenziamento, essendo, invece, sufficiente che sia indicata la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze di fatto essenziali, in modo tale che, in sede di eventuale impugnazione e di contenzioso avanti al giudice del lavoro, non possa essere invocata una fattispecie totalmente diversa, mentre è sempre possibile precisare quella dedotta esplicitando elementi di fatto non puntualmente indicati nella motivazione.
Essendo il licenziamento un atto ricettizio, esso acquisisce validità quando è ricevuto dal lavoratore: di norma, quindi, esso è validamente trasmesso:
- tramite raccomandata A/R;
oppure
- con consegna a mani e sottoscrizione di ricevuta.
In questo secondo caso, può capitare che il lavoratore non voglia ritirare la lettera di licenziamento e/o sottoscriverla per ricevuta; a riguardo, è diffusa nella prassi la consuetudine, nel caso di rifiuto del lavoratore alla consegna a mani della lettera, di procedere alla lettura al lavoratore del suo contenuto da parte del datore di lavoro alla presenza di testimoni. Tuttavia, è stato chiarito che la sola lettura della lettera di licenziamento dinnanzi a testimoni non è sufficiente per il rispetto dei principi posti dall’art.2, L. n. 604/66: in un eventuale giudizio di impugnazione, tali testimonianze risulterebbero, infatti, inammissibili ex art. 2725 del Codice Civile (norma che non consente la prova testimoniale di un contratto o di un atto unilaterale di cui la legge preveda la forma scritta a pena di nullità) né tale divieto sarebbe superabile in base all’art.421 c.p.c.
In tali casi, pertanto, sarà quindi opportuno non limitarsi alla lettura della lettera di licenziamento, ma anche comunque trasmettere la lettera di licenziamento tramite il servizio postale e con raccomandata A/R, al fine di non ricadere nella problematica evidenziata, dandosi per cautela atto con lettera accompagnatoria delle operazioni effettuate.
Diverso è il caso in cui il licenziamento per gmo colpisca un lavoratore dipendente (assunto prima del 7 marzo 2015) di datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento, più di 15 dipendenti nello stesso Comune (in entrambi i casi più di 5 se imprenditore agricolo) o, in ogni caso, con più di 60 dipendenti. Se, quindi, il datore di lavoro rientra in una situazione di c.d. stabilità reale, il licenziamento per gmo deve essere preceduto dal tentativo obbligatorio di conciliazione avanti alla DTL, regolato dall’art.7, L. n.604/66 (come novellato dalla L. n. 92/12).
In tutte le altre tipologie di licenziamento (per giusta causa, per giustificato motivo soggettivo, collettivo e nel caso di licenziamento di dirigente) non si ha l’applicazione di questa procedura conciliativa, rimanendo, comunque, usufruibile il tentativo facoltativo di conciliazione, come regolato dagli artt. 410 ss. c.p.c.
Il licenziamento per gmo deve essere, quindi, preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla DTL competente e trasmessa per conoscenza al lavoratore. In tale comunicazione “il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato”.
Trattasi di comunicazione nella quale il licenziamento stesso non è ancora attuato, ma semplicemente preannunciato alla DTL e segnalato altresì “per conoscenza” al lavoratore. In tale comunicazione, può essere inserita dal datore di lavoro l’indicazione, che la legge pone come eventuale, di misure di assistenza alla ricollocazione (outplacement, percorsi di riqualificazione, eventuale disponibilità a incentivi all’esodo), mentre si deve dare conto della verifica effettuata dall’azienda del non possibile repêchage del lavoratore.
Ricevuta la comunicazione del datore di lavoro, la DTL deve trasmettere la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore “nel termine perentorio di 7 giorni”.
Nell’ambito della predetta procedura di conciliazione, che si svolge concretamente avanti alle Commissioni Provinciali di cui all’art. 410 c.p.c., le parti, con la partecipazione attiva della commissione stessa “procedono a esaminare anche soluzioni alternative al recesso”, nell’intento di tentare di salvaguardare il posto di lavoro in discussione. La procedura si deve concludere nel brevissimo termine di “20 giorni dal momento in cui la DTL ha trasmesso la convocazione per l’incontro, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non
ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo”.
All’esito del tentativo di conciliazione, in caso di mancato accordo, il datore di lavoro può allora “comunicare al lavoratore il licenziamento” e il recesso, in base al co.41, art.1, L. n.92/12, produrrà effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato “salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva”; il lavoro prestato nelle more della procedura di conciliazione non potrà, quindi, che essere considerato quale preavviso lavorato. Se, viceversa, la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il lavoratore mantiene il diritto a richiedere e ottenere la disoccupazione (nel testo legislativo ASpI, ora NASpI).
In caso di mancato accordo in sede di tentativo di conciliazione, il datore di lavoro potrà procedere come detto a intimare il licenziamento al dipendente, richiamando opportunamente le motivazioni già convenientemente indicate nella comunicazione di apertura del procedimento. Al riguardo si può ritenere che l’obbligo di specificazione dei motivi di recesso nel licenziamento per gmo vada assolto dal datore di lavoro con la comunicazione di cui all’art. 2, L. n.604/66, mentre la previa comunicazione di cui all’art.7, L. n.604/66, per le finalità deflattive alle quali risponde la procedura stessa, deve contenere i requisiti minimi che consentono al lavoratore e all’organo deputato a esperire la conciliazione di comprendere, in linea di massima, le ragioni della scelta espulsiva. La comunicazione del licenziamento non perfeziona, però, il licenziamento ex nunc, ma bensì ex tunc, essendo, per espressa previsione normativa, il licenziamento efficace retroattivamente sin dalla comunicazione di apertura della procedura di conciliazione; l’eventuale periodo lavorato dal dipendente tra l’inizio della procedura e l’effettivo licenziamento sarà considerato quale preavviso lavorato.
Si è visto come il procedimento ex art. 7, L. n. 604/66, sia escluso, nel caso di “vecchi assunti” per i datori di lavoro, con meno di 16 dipendenti, nel caso di licenziamento di dirigenti e per espressa disposizione legislativa contenuta nello stesso art. 7, L. n. 604/66, per i casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto e nei casi di cambio d’appalto e interruzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e per chiusura del cantiere.
Il D.L. n.76/13 ha, infine, aggiunto il seguente paragrafo al co.6, art.7, L. n.604/66: “la mancata presentazione di una o entrambe le parti al tentativo di conciliazione è valutata dal giudice ai sensi dell’art.116 del codice di procedura civile”. L’art.116, co.2, c.p.c., intitolato “valutazione delle prove”, prevede che: “il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente [interrogatorio libero delle parti, NdA], dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse al processo”.
Al riguardo, talvolta la mancata comparizione delle parti al tentativo obbligatorio di conciliazione non viene presa in considerazione, nella successiva eventuale impugnazione giudiziale, dal giudice del lavoro mentre, in altre occasioni, il comportamento, soprattutto del datore di lavoro, assume valore rilevante: in una pronuncia (Trib. Monza, sent. n.356/15) è stato addirittura rilevato come – pur in assenza di un’espressa previsione in tal senso – per il datore di lavoro la presentazione al tentativo obbligatorio di conciliazione non sia meramente
facoltativa, ma obbligatoria, pena, in difetto, l’inosservanza della procedura e la conseguente illegittimità del licenziamento (seppure solo dal punto di vista formale).
Infine, per gli assunti a tutele crescenti, esclusi dalla procedura ex art.7, L. n.604/66 (qualsiasi sia la dimensione del datore di lavoro), il datore di lavoro (in base all’art. 6, D.Lgs. n. 23/15) può offrire al lavoratore licenziato, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi protette (art. 2113, co.4 cod.civ., e art.76, D.Lgs. n.276/03), un importo, che non costituisce reddito imponibile ai fini Irpef e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare: l’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione definitiva del rapporto di lavoro alla data di licenziamento e la rinuncia da parte del lavoratore all’impugnazione del licenziamento, sia essa già effettuata o in pendenza del termine di 60 giorni per effettuarla. La medesima norma prevede che, entro i 65 giorni successivi al licenziamento, ai fini del monitoraggio dell’istituto, il datore effettui una comunicazione circa la data dell’offerta, l’esito della conciliazione, la sede e l’importo proposto (accettato o meno dal lavoratore).
La scelta del lavoratore da licenziare e il problema del repêchage
Nell’ambito del licenziamento per gmo, è nota l’insidiosa problematica del c.d. repêchage, ovvero il diritto, a favore del lavoratore, alla salvezza del posto di lavoro nel caso vi siano, al momento del recesso, posizioni lavorative disponibili all’interno dell’organigramma aziendale. L’elaborazione giurisprudenziale, nel corso dei decenni, ha stabilito come il licenziamento possa essere considerato legittimo solo quando costituisca una extrema ratio e non sia possibile, per il datore di lavoro, alcun salvataggio del lavoratore nell’organizzazione produttiva, ad esempio attraverso l’adibizione dello stesso in mansioni diverse.
Già, quindi, nella lettera di licenziamento (o nell’attivazione del tentativo di conciliazione quando dovuto) il datore di lavoro deve allegare l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore in esubero in altra posizione lavorativa disponibile. Nel successivo eventuale giudizio di impugnazione poi, tradizionalmente, il lavoratore doveva fornire elementi atti a individuare, all’interno della compagine aziendale, posti di lavoro liberi compatibili con il suo bagaglio professionale; se il lavoratore forniva le allegazioni di cui al punto precedente, scattava l’onere a carico del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del dipendente nelle posizioni lavorative indicate dal lavoratore come disponibili.
Recentemente, però, la Cassazione è intervenuta sull’argomento nella Sentenza n. 5592/16 (che ha fatto molto rumore), stabilendo che in materia di illegittimo licenziamento per gmo spetti al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del lavoratore, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte datoriale.
Tale principio è stato, però, contraddetto da una Sentenza della stessa Corte Suprema di poche settimane dopo, la n. 9467/16, che ha, viceversa, stabilito come il datore di lavoro abbia l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi e indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Tale prova, secondo tale successiva sentenza, non deve però essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repêchage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti.
Nell’ultima sentenza citata la Cassazione ha anche affrontato un aspetto centrale e spinoso del repêchage: fino a che punto debba spingersi la ricollocazione del lavoratore, in presenza di posizioni lavorative disponibili in azienda, ma con mansioni inferiori. La sentenza ha affermato che il demansionamento, a prescindere dall’accettazione o meno da parte del lavoratore e dunque dall’esistenza di un patto di demansionamento, è ammissibile sempre che ci sia una certa omogeneità con i compiti originariamente svolti dal lavoratore; il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha poi l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa (alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte), ma anche l’insussistenza di mansioni inferiori rientranti e compatibili con il bagaglio professionale dei lavoratore.
Si può, quindi, ritenere che non vi sia un obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore tutte le mansioni possibili, anche quelle del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza dal lavoratore e che le mansioni del tutto avulse dal bagaglio professionale del dipendente non debbano essere considerate dal datore di lavoro ai fini del repêchage.
Nulla però vieta che, prima di procedere all’intimazione del licenziamento o in occasione del tentativo di conciliazione, il datore di lavoro possa volontariamente proporre al lavoratore anche mansioni inferiori incompatibili: in caso di accettazione del lavoratore, con un opportuno patto di demansionamento – cautelativamente da sottoscrivere in sede protetta – vi potrebbe essere, quindi, l’adibizione anche mansioni inferiori incompatibili, qualora il lavoratore accetti tale soluzione pur di aver salvo il posto di lavoro e rinunciando a qualsiasi pretesa circa l’intervenuto demansionamento.
Qualora, infine, il lavoratore da licenziare sia compreso all’interno di un gruppo di lavoratori del tutto fungibili, il datore di lavoro, nella determinazione di quale dipendente individuare, deve agire secondo buona fede: tale buona fede è ravvisabile sicuramente allorquando il datore di lavoro applichi i criteri di scelta di cui all’art. 5, L. n. 223/91 – in particolare anzianità di servizio e carichi di famiglia, arrivando, pertanto, alla scelta del dipendente da porre in esubero nel modo più oggettivo e asettico possibile.
Al riguardo è stato però evidenziato che, non vertendosi in un’ipotesi di licenziamento collettivo, l’applicabilità dei criteri sopra indicati non costituisce regola cogente, quanto semmai un criterio di riferimento per riempire di contenuto la regola generale della buona fede, che deve ispirare la decisione datoriale e, pertanto, i criteri indicati nel suddetto art. 5, L. n. 223/91, possono anche essere derogati e sostituiti da altri che il datore di lavoro ritiene di dover preferire e che hanno uguale patente di legittimità, purché ritenuti meritevoli di considerazione.
I divieti di licenziamento
Il datore di lavoro, prima di dar corso al licenziamento per gmo (sussistendone ovviamente i presupposti di legittimità), deve altresì avere l’accortezza di verificare l’esistenza di situazioni, attinenti al lavoratore, ostative al recesso, ovvero:
- matrimonio: il licenziamento, in base all’art.35, D.Lgs. n.198/06, non può essere effettuato dal giorno della richiesta di pubblicazioni fino a un anno dopo la celebrazione del matrimonio. La stessa norma prevede, però, come al datore di lavoro sia data facoltà di provare che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui sopra, è stato effettuato non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi:
- colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
- cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
- ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.
Al riguardo è opportuno ricordare che, la presunzione concernente l’avvenuta intimazione per causa di matrimonio del licenziamento della lavoratrice – disposto nel periodo compreso tra la data della richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione delle nozze – riguarda ogni recesso che sia stato disposto dal datore di lavoro nell’arco temporale indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la “decisione” di recesso sia stata attuata, con conseguente irrilevanza del periodo di preavviso con scadenza posteriore; inoltre, anche in forza di un’interpretazione della norma nazionale conforme alla normativa comunitaria sulla parità di trattamento tra uomo e donna, deve ritenersi nullo il licenziamento per causa di matrimonio intimato al “lavoratore”, superandosi in tal modo il dato letterale dell’art.35, D.Lgs. n.198/06, nella parte in cui riferisce la tutela esclusivamente alle donne lavoratrici;
- gravidanza e congedi parentali: il divieto opera dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino in base all’art.54, D.Lgs. n.151/01, ma, anche in questo caso, tale nullità del licenziamento non opera nei casi di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta e ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine ed esito negativo della prova.
È, altresì, vietato il licenziamento intimato al lavoratore che abbia fruito del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso e fino al compimento di un anno dell’età del bambino, nonché quello causato dalla fruizione del congedo parentale e per malattia da parte della lavoratrice e del lavoratore. Si deve tenere presente, inoltre, come il licenziamento irrogato alla lavoratrice in stato di gravidanza sia nullo, anche se la dipendente non abbia informato il datore del proprio stato;
- infortunio o malattia: in base all’art.2110 cod.civ., il divieto di licenziamento dura per tutto il periodo stabilito dalla legge o dai contratti collettivi;
- l’attività sindacale, la partecipazione a scioperi, il credo religioso o politico del dipendente possono integrare, anche nel caso il gmo sia esistente, la fattispecie del licenziamento discriminatorio, con la conseguente nullità dello stesso in base all’art.18, co.1, Statuto dei Lavoratori, e in base all’art.2, D.Lgs. n.23/15: in tali casi la tutela apprestata dall’ordinamento è quella “reintegratoria forte”, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, dalla data di assunzione o dalla categoria rivestita.
Bisogna, altresì, porre attenzione al licenziamento per gmo del disabile assunto obbligatoriamente: in tale evenienza, in base all’art.10, L. n.68/99, che stabilisce come, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, il datore di lavoro possa richiedere (alla competente “commissione invalidi” distrettuale dell’Asl) che vengano accertate le condizioni di salute del disabile, per verificare se, a causa delle sue minorazioni, possa continuare a essere utilizzato presso l’azienda; il rapporto di lavoro può essere risolto solo nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda.
Le conseguenze del licenziamento per gmo in sintesi
Qualora l’imprenditore decida, ritenendone sussistenti i presupposti, di procedere a un licenziamento per gmo può essere utile che lo stesso abbia il quadro, almeno indicativo, delle tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.
Nel caso di licenziamento di lavoratore in stabilità reale e assunto prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n.23/15 e del contratto “a tutele crescenti”), l’art.18, co.7, prevede la sanzione della reintegrazione e dell’indennità risarcitoria (nell’importo massimo di 12 mensilità), in caso di “manifesta insussistenza” del motivo oggettivo posto dal datore di lavoro ovvero per difetto di giustificazione circa “il motivo oggettivo consistente nell’idoneità fisica o psichica del lavoratore”, cioè quando il licenziamento sia stato intimato “in violazione dell’art.2110, secondo comma, codice civile”. Nelle altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo – ipotesi in cui la giurisprudenza ha collocato la violazione dell’obbligo di repêchage – il giudice del lavoro, eventualmente adito, applicherà solo la sanzione risarcitoria da 12 a 24 mensilità “dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”.
Tale norma si applica però solo ai “vecchi assunti”, mentre per i “nuovi assunti” dal 7 marzo 2015 in poi si applica – in caso di licenziamento per gmo – la previsione dell’art.3, D.Lgs. n.23/15. Come noto, tale articolo, al co.1, qualora il giudice, all’esito del giudizio, rilevi l’assenza di gmo del licenziamento “dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.
Tali regole valgono per i dipendenti di imprese con più di 15 dipendenti nella sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo al quale era addetto il lavoratore licenziato, o con più di 15 dipendenti nello stesso comune o, comunque, con più di 60 dipendenti (si applicano anche se l’imprenditore agricolo ha più di 5 dipendenti). Per i licenziamenti economici dei lavoratori assunti dal 7 marzo (o il cui contratto a tempo determinato o di apprendistato sia stato trasformato a tempo indeterminato, o ancora per i dipendenti assunti
precedentemente da datori di lavoro che in seguito a nuove assunzioni abbiano integrato il requisito occupazionale di cui all’art.18, L. n.300/70) è, quindi, sempre esclusa sia la reintegrazione nel posto di lavoro – tranne il caso che il licenziamento per gmo celi un licenziamento discriminatorio o ritorsivo – sia la discrezionalità del giudice sull’ammontare dell’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo.
L’art.4, D.Lgs. n.23/15, prevede poi, in caso di vizio formale consistente in “violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n.604 del 1966”, che le tutele siano dimezzate con la previsione di una sola mensilità risarcitoria per anno di servizio, con un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità. Si deve ricordare, inoltre, come, per i nuovi assunti delle piccole imprese con meno di 15 dipendenti, il D.Lgs. n.23/15 preveda, entro il limite massimo risarcitorio di 6 mensilità e minimo di 2, il dimezzamento delle indennità previste per i lavoratori dipendenti di aziende con più di 15 dipendenti.
In caso di violazione dell’obbligo di indicazione o specificazione dei motivi del licenziamento economico, l’indennizzo a favore dei “nuovi assunti” delle piccole imprese sarà pari a mezza mensilità per anno di servizio, con un minimo di una mensilità e un massimo di 6. In questo caso, si è di fronte a una tutela ancora inferiore rispetto alla già limitata “tutela obbligatoria” prevista per le piccole imprese dall’art.8, L. n.604/66.
Per i lavoratori “nuovi assunti”, quindi, in caso di violazione dell’obbligo di repêchage e di conseguente illegittimità del licenziamento per tale mancanza, le sanzioni sono ora automaticamente e rigidamente determinate dal D.Lgs. n.23/15, senza più discrezionalità per il giudicante.
Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo o “economico” rappresenta sicuramente il caso più ricorrente di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Ciò in considerazione della crisi economica che, ormai da quasi un decennio, attanaglia il Bel Paese, situazione che solo negli ultimi tempi sembra dare qualche timido segnale di inversione di rotta.
Qui di seguito, cercheremo di analizzare i diversi passaggi del procedimento di licenziamento per gmo.
Il licenziamento per motivi economici
Da quando la crisi economica, a partire dal 2007-2008, ha preso piede nel nostro Paese, diventando negli anni seguenti una situazione ormai strutturale, una parte del sistema imprenditoriale italiano si è sfaldato o ha comunque ridotto la propria attività e i timidi segnali di ripresa dell’occupazione, merito più che altro dei periodici sgravi e incentivi, non sembrano ancora invertire in maniera convincente la tendenza. In questo quadro, la limitazione dei costi e la ricerca di una più efficiente organizzazione hanno rappresentato, per le imprese, una necessità imprescindibile, che ha avuto pesanti ricadute sui livelli occupazionali, che in Italia, attualmente, sono ancora molto lontani dai livelli pre-crisi.
In tale contesto, il licenziamento individuale per gmo – ovvero quello regolato dall’art.3 L. n.604/66 e determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa – rappresenta, per il datore di lavoro, lo strumento idoneo per la risoluzione del contratto a tempo indeterminato in caso di necessità di soppressione di posizione lavorativa. Pare superfluo ricordare che, qualora il numero dei licenziamenti che l’imprenditore ritenga di mettere in atto sia almeno 5 nell’arco di 120 giorni, è obbligatorio il ricorso alla diversa, specifica procedura di licenziamento collettivo, regolata dalla L. n.223/91.
Con la presente circolare si esamineranno le regole proprie del licenziamento individuale c.d. per motivi economici, nel quale la riduzione della forza lavoro non richieda, quindi, la complessa procedura di mobilità.
I presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La legislazione che regola il fenomeno del licenziamento distingue, come noto, la fattispecie risolutiva del rapporto di lavoro nelle ipotesi disciplinari (per giusta causa e giustificato motivo soggettivo) dai licenziamenti per gmo, individuati dall’art.3, L. n.604/66, in quelli determinati da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.
All’interno di tale categoria del gmo, si suole tradizionalmente distinguere i licenziamenti per motivi economici (ovvero quelli relativi all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro) dalle altre ipotesi (connesse a ragioni inerenti al regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro).
In tale tipologia, vanno annoverati:
- i licenziamenti per superamento del periodo di comporto, ovvero il lasso temporale nel quale il dipendente ha diritto alla conservazione del posto di lavoro in caso di malattia o infortunio;
- il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica o psichica permanente allo svolgimento delle mansioni;
- la risoluzione del rapporto per stato detentivo del lavoratore;
- il licenziamento per perdita di titolo abilitativo (si pensi alla revoca della patente di guida per gli autisti);
situazioni che di fatto non consentono al lavoratore di svolgere la propria attività lavorativa.
Concentrandosi sulla fattispecie sicuramente più frequente, ovvero il licenziamento per motivi economici, occorre individuare quali siano per il datore di lavoro i presupposti per poter procedere legittimamente al licenziamento; come detto, la norma cardine è rappresentata dal già ricordato art. 3, L. n. 604/66: essa prevede che il licenziamento per gmo sia determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Bisogna, quindi, preventivamente individuare quale sia il significato della norma e quali siano i limiti della facoltà di recesso dell’imprenditore, che, nel caso di eventuale impugnazione del licenziamento, ha, come noto, l’onere della prova della sussistenza dei motivi del licenziamento stesso.
In presenza del laconico dato normativo è stata la giurisprudenza a individuare i limiti del potere di recesso datoriale dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato; si sono, quindi, stabiliti i seguenti principi:
- il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l’ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell’impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà d’iniziativa economica tutelata dall’art.41, Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore;
- non è quindi sindacabile, nei suoi profili di congruità e opportunità, la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato;
- nell’eventuale giudizio di impugnazione del licenziamento, l’onere di dedurre e di dimostrare l’effettiva sussistenza del motivo addotto è a carico del datore di lavoro; quindi, nell’ipotesi di licenziamento riconducibile a un riassetto organizzativo dell’impresa, quest’ultima deve dare conto delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto, oltre che del nesso di causalità con il licenziamento;
- il riassetto organizzativo dell’azienda può essere attuato anche al fine di una più economica gestione dell’impresa, finalizzata a far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva.
Recentemente, però, è stato affermato che, anche in assenza di situazioni di difficoltà economiche o crisi del datore di lavoro, il licenziamento per gmo può essere considerato legittimo, perfino quando la riorganizzazione è attuata per aumentare i profitti dell’impresa: ciò in considerazione del fatto che un aumento del profitto si traduce non solo in un vantaggio per il suo patrimonio individuale, ma, principalmente, in un incremento degli utili dell’impresa, ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori.
In sintesi, quindi, deve ritenersi che, in tema di licenziamento per gmo, restano insindacabili – anche in considerazione dell’introduzione nell’ordinamento giuridico delle disposizioni contenute nell’art.30, L. n.183/10 – e ragioni e le modalità della scelta effettuata dall’imprenditore per fare fronte alle esigenze obiettive che si presentino nell’impresa, potendosene solo vagliare il rapporto di causa-effetto con le ripercussioni sui rapporti di lavoro, conseguenze che devono comunque essere oggettivamente verificabili.
In tale contesto, ogni ragione addotta dal datore di lavoro, purché lecita, seria, dimostrabile e che abbia conseguente riflesso sul rapporto di lavoro che viene meno, può essere adottata dall’imprenditore nell’ambito di un licenziamento per gmo.
Tali principi sono validi sia per i licenziamenti intimati nei confronti di dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 sia per quelli assunti dopo, poiché il contratto a tutele crescenti, introdotto, nell’ambito del Jobs Act dal D.Lgs. n.23/15, ha inciso appunto sulle tutele in caso di licenziamento illegittimo, non sui suoi presupposti.
La formalizzazione del licenziamento per gmo
Verificati i presupposti di cui sopra, il datore di lavoro, per quanto riguarda la formalizzazione del licenziamento per gmo, occorre che valuti preliminarmente sia la categoria di appartenenza del lavoratore sia la data di assunzione e le dimensioni dell’impresa. Bisogna premettere che qualsiasi licenziamento deve essere intimato per iscritto, in base all’art.2, co.1, L. n. 604/66: il licenziamento orale è, infatti, considerato tamquam non esset, con le piene conseguenze reintegratorie dettate dall’art.18, co.1, L. n.300/70, e dall’art.2, D.Lgs. n.23/15, a prescindere dalle dimensioni del datore di lavoro e dalla data di assunzione, applicandosi la forma scritta anche al licenziamento dei dirigenti.
Mentre per gli assunti pre-Jobs Act dipendenti di aziende in “stabilità reale”, il licenziamento per gmo deve essere preceduto dalla procedura prevista dall’art.7, L. n.604/66, sia per i “vecchi assunti” in “stabilità obbligatoria” che per tutti i “nuovi assunti” dal 7 marzo 2015 (a prescindere dalle dimensioni aziendali), non vi è alcun obbligo di far precedere tale tentativo di conciliazione al licenziamento.
La lettera di licenziamento, oltre alla forma scritta, deve contenere – in base all’art.2, co.2, L. n.604/66 – la specificazione dei motivi che lo hanno determinato: tale disposizione impone, pertanto, l’obbligo a carico del datore di lavoro di contestuale e specifica motivazione del licenziamento, essendo stata eliminata la possibilità della comunicazione differita dei motivi del licenziamento a richiesta del lavoratore, prevista prima dell’entrata in vigore dalla L. n.92/12. L’esercizio del potere di recesso del datore di lavoro con atto motivato comporta necessariamente l’immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento: tale regola ha carattere generale, operando come fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore. Infatti, la motivazione del licenziamento è funzionale alla tutela del principio di immodificabilità della contestazione dei motivi del recesso, nel senso che delimita la materia del contendere, precludendo al datore di lavoro di introdurre in giudizio fatti nuovi o elementi diversi, se non meramente confermativi o di contorno di quelli già esposti.
Ciò non implica, tuttavia, che la motivazione debba essere specificata in tutti i suoi elementi di fatto e di diritto all’atto del licenziamento, essendo, invece, sufficiente che sia indicata la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze di fatto essenziali, in modo tale che, in sede di eventuale impugnazione e di contenzioso avanti al giudice del lavoro, non possa essere invocata una fattispecie totalmente diversa, mentre è sempre possibile precisare quella dedotta esplicitando elementi di fatto non puntualmente indicati nella motivazione.
Essendo il licenziamento un atto ricettizio, esso acquisisce validità quando è ricevuto dal lavoratore: di norma, quindi, esso è validamente trasmesso:
- tramite raccomandata A/R;
oppure
- con consegna a mani e sottoscrizione di ricevuta.
In questo secondo caso, può capitare che il lavoratore non voglia ritirare la lettera di licenziamento e/o sottoscriverla per ricevuta; a riguardo, è diffusa nella prassi la consuetudine, nel caso di rifiuto del lavoratore alla consegna a mani della lettera, di procedere alla lettura al lavoratore del suo contenuto da parte del datore di lavoro alla presenza di testimoni. Tuttavia, è stato chiarito che la sola lettura della lettera di licenziamento dinnanzi a testimoni non è sufficiente per il rispetto dei principi posti dall’art.2, L. n. 604/66: in un eventuale giudizio di impugnazione, tali testimonianze risulterebbero, infatti, inammissibili ex art. 2725 del Codice Civile (norma che non consente la prova testimoniale di un contratto o di un atto unilaterale di cui la legge preveda la forma scritta a pena di nullità) né tale divieto sarebbe superabile in base all’art.421 c.p.c.
In tali casi, pertanto, sarà quindi opportuno non limitarsi alla lettura della lettera di licenziamento, ma anche comunque trasmettere la lettera di licenziamento tramite il servizio postale e con raccomandata A/R, al fine di non ricadere nella problematica evidenziata, dandosi per cautela atto con lettera accompagnatoria delle operazioni effettuate.
Diverso è il caso in cui il licenziamento per gmo colpisca un lavoratore dipendente (assunto prima del 7 marzo 2015) di datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze più di 15 dipendenti nell’unità produttiva in cui ha avuto luogo il licenziamento, più di 15 dipendenti nello stesso Comune (in entrambi i casi più di 5 se imprenditore agricolo) o, in ogni caso, con più di 60 dipendenti. Se, quindi, il datore di lavoro rientra in una situazione di c.d. stabilità reale, il licenziamento per gmo deve essere preceduto dal tentativo obbligatorio di conciliazione avanti alla DTL, regolato dall’art.7, L. n.604/66 (come novellato dalla L. n. 92/12).
In tutte le altre tipologie di licenziamento (per giusta causa, per giustificato motivo soggettivo, collettivo e nel caso di licenziamento di dirigente) non si ha l’applicazione di questa procedura conciliativa, rimanendo, comunque, usufruibile il tentativo facoltativo di conciliazione, come regolato dagli artt. 410 ss. c.p.c.
Il licenziamento per gmo deve essere, quindi, preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla DTL competente e trasmessa per conoscenza al lavoratore. In tale comunicazione “il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e indicare i motivi del licenziamento, nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato”.
Trattasi di comunicazione nella quale il licenziamento stesso non è ancora attuato, ma semplicemente preannunciato alla DTL e segnalato altresì “per conoscenza” al lavoratore. In tale comunicazione, può essere inserita dal datore di lavoro l’indicazione, che la legge pone come eventuale, di misure di assistenza alla ricollocazione (outplacement, percorsi di riqualificazione, eventuale disponibilità a incentivi all’esodo), mentre si deve dare conto della verifica effettuata dall’azienda del non possibile repêchage del lavoratore.
Ricevuta la comunicazione del datore di lavoro, la DTL deve trasmettere la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore “nel termine perentorio di 7 giorni”.
Nell’ambito della predetta procedura di conciliazione, che si svolge concretamente avanti alle Commissioni Provinciali di cui all’art. 410 c.p.c., le parti, con la partecipazione attiva della commissione stessa “procedono a esaminare anche soluzioni alternative al recesso”, nell’intento di tentare di salvaguardare il posto di lavoro in discussione. La procedura si deve concludere nel brevissimo termine di “20 giorni dal momento in cui la DTL ha trasmesso la convocazione per l’incontro, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, non
ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo”.
All’esito del tentativo di conciliazione, in caso di mancato accordo, il datore di lavoro può allora “comunicare al lavoratore il licenziamento” e il recesso, in base al co.41, art.1, L. n.92/12, produrrà effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato “salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso e alla relativa indennità sostitutiva”; il lavoro prestato nelle more della procedura di conciliazione non potrà, quindi, che essere considerato quale preavviso lavorato. Se, viceversa, la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, il lavoratore mantiene il diritto a richiedere e ottenere la disoccupazione (nel testo legislativo ASpI, ora NASpI).
In caso di mancato accordo in sede di tentativo di conciliazione, il datore di lavoro potrà procedere come detto a intimare il licenziamento al dipendente, richiamando opportunamente le motivazioni già convenientemente indicate nella comunicazione di apertura del procedimento. Al riguardo si può ritenere che l’obbligo di specificazione dei motivi di recesso nel licenziamento per gmo vada assolto dal datore di lavoro con la comunicazione di cui all’art. 2, L. n.604/66, mentre la previa comunicazione di cui all’art.7, L. n.604/66, per le finalità deflattive alle quali risponde la procedura stessa, deve contenere i requisiti minimi che consentono al lavoratore e all’organo deputato a esperire la conciliazione di comprendere, in linea di massima, le ragioni della scelta espulsiva. La comunicazione del licenziamento non perfeziona, però, il licenziamento ex nunc, ma bensì ex tunc, essendo, per espressa previsione normativa, il licenziamento efficace retroattivamente sin dalla comunicazione di apertura della procedura di conciliazione; l’eventuale periodo lavorato dal dipendente tra l’inizio della procedura e l’effettivo licenziamento sarà considerato quale preavviso lavorato.
Si è visto come il procedimento ex art. 7, L. n. 604/66, sia escluso, nel caso di “vecchi assunti” per i datori di lavoro, con meno di 16 dipendenti, nel caso di licenziamento di dirigenti e per espressa disposizione legislativa contenuta nello stesso art. 7, L. n. 604/66, per i casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto e nei casi di cambio d’appalto e interruzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili, per completamento delle attività e per chiusura del cantiere.
Il D.L. n.76/13 ha, infine, aggiunto il seguente paragrafo al co.6, art.7, L. n.604/66: “la mancata presentazione di una o entrambe le parti al tentativo di conciliazione è valutata dal giudice ai sensi dell’art.116 del codice di procedura civile”. L’art.116, co.2, c.p.c., intitolato “valutazione delle prove”, prevede che: “il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno a norma dell’articolo seguente [interrogatorio libero delle parti, NdA], dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinate e, in generale, dal contegno delle parti stesse al processo”.
Al riguardo, talvolta la mancata comparizione delle parti al tentativo obbligatorio di conciliazione non viene presa in considerazione, nella successiva eventuale impugnazione giudiziale, dal giudice del lavoro mentre, in altre occasioni, il comportamento, soprattutto del datore di lavoro, assume valore rilevante: in una pronuncia (Trib. Monza, sent. n.356/15) è stato addirittura rilevato come – pur in assenza di un’espressa previsione in tal senso – per il datore di lavoro la presentazione al tentativo obbligatorio di conciliazione non sia meramente
facoltativa, ma obbligatoria, pena, in difetto, l’inosservanza della procedura e la conseguente illegittimità del licenziamento (seppure solo dal punto di vista formale).
Infine, per gli assunti a tutele crescenti, esclusi dalla procedura ex art.7, L. n.604/66 (qualsiasi sia la dimensione del datore di lavoro), il datore di lavoro (in base all’art. 6, D.Lgs. n. 23/15) può offrire al lavoratore licenziato, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi protette (art. 2113, co.4 cod.civ., e art.76, D.Lgs. n.276/03), un importo, che non costituisce reddito imponibile ai fini Irpef e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare: l’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione definitiva del rapporto di lavoro alla data di licenziamento e la rinuncia da parte del lavoratore all’impugnazione del licenziamento, sia essa già effettuata o in pendenza del termine di 60 giorni per effettuarla. La medesima norma prevede che, entro i 65 giorni successivi al licenziamento, ai fini del monitoraggio dell’istituto, il datore effettui una comunicazione circa la data dell’offerta, l’esito della conciliazione, la sede e l’importo proposto (accettato o meno dal lavoratore).
La scelta del lavoratore da licenziare e il problema del repêchage
Nell’ambito del licenziamento per gmo, è nota l’insidiosa problematica del c.d. repêchage, ovvero il diritto, a favore del lavoratore, alla salvezza del posto di lavoro nel caso vi siano, al momento del recesso, posizioni lavorative disponibili all’interno dell’organigramma aziendale. L’elaborazione giurisprudenziale, nel corso dei decenni, ha stabilito come il licenziamento possa essere considerato legittimo solo quando costituisca una extrema ratio e non sia possibile, per il datore di lavoro, alcun salvataggio del lavoratore nell’organizzazione produttiva, ad esempio attraverso l’adibizione dello stesso in mansioni diverse.
Già, quindi, nella lettera di licenziamento (o nell’attivazione del tentativo di conciliazione quando dovuto) il datore di lavoro deve allegare l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore in esubero in altra posizione lavorativa disponibile. Nel successivo eventuale giudizio di impugnazione poi, tradizionalmente, il lavoratore doveva fornire elementi atti a individuare, all’interno della compagine aziendale, posti di lavoro liberi compatibili con il suo bagaglio professionale; se il lavoratore forniva le allegazioni di cui al punto precedente, scattava l’onere a carico del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del dipendente nelle posizioni lavorative indicate dal lavoratore come disponibili.
Recentemente, però, la Cassazione è intervenuta sull’argomento nella Sentenza n. 5592/16 (che ha fatto molto rumore), stabilendo che in materia di illegittimo licenziamento per gmo spetti al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del lavoratore, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte datoriale.
Tale principio è stato, però, contraddetto da una Sentenza della stessa Corte Suprema di poche settimane dopo, la n. 9467/16, che ha, viceversa, stabilito come il datore di lavoro abbia l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi e indiziari, l’impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Tale prova, secondo tale successiva sentenza, non deve però essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repêchage, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti.
Nell’ultima sentenza citata la Cassazione ha anche affrontato un aspetto centrale e spinoso del repêchage: fino a che punto debba spingersi la ricollocazione del lavoratore, in presenza di posizioni lavorative disponibili in azienda, ma con mansioni inferiori. La sentenza ha affermato che il demansionamento, a prescindere dall’accettazione o meno da parte del lavoratore e dunque dall’esistenza di un patto di demansionamento, è ammissibile sempre che ci sia una certa omogeneità con i compiti originariamente svolti dal lavoratore; il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha poi l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa (alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte), ma anche l’insussistenza di mansioni inferiori rientranti e compatibili con il bagaglio professionale dei lavoratore.
Si può, quindi, ritenere che non vi sia un obbligo del datore di lavoro di offrire al lavoratore tutte le mansioni possibili, anche quelle del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza dal lavoratore e che le mansioni del tutto avulse dal bagaglio professionale del dipendente non debbano essere considerate dal datore di lavoro ai fini del repêchage.
Nulla però vieta che, prima di procedere all’intimazione del licenziamento o in occasione del tentativo di conciliazione, il datore di lavoro possa volontariamente proporre al lavoratore anche mansioni inferiori incompatibili: in caso di accettazione del lavoratore, con un opportuno patto di demansionamento – cautelativamente da sottoscrivere in sede protetta – vi potrebbe essere, quindi, l’adibizione anche mansioni inferiori incompatibili, qualora il lavoratore accetti tale soluzione pur di aver salvo il posto di lavoro e rinunciando a qualsiasi pretesa circa l’intervenuto demansionamento.
Qualora, infine, il lavoratore da licenziare sia compreso all’interno di un gruppo di lavoratori del tutto fungibili, il datore di lavoro, nella determinazione di quale dipendente individuare, deve agire secondo buona fede: tale buona fede è ravvisabile sicuramente allorquando il datore di lavoro applichi i criteri di scelta di cui all’art. 5, L. n. 223/91 – in particolare anzianità di servizio e carichi di famiglia, arrivando, pertanto, alla scelta del dipendente da porre in esubero nel modo più oggettivo e asettico possibile.
Al riguardo è stato però evidenziato che, non vertendosi in un’ipotesi di licenziamento collettivo, l’applicabilità dei criteri sopra indicati non costituisce regola cogente, quanto semmai un criterio di riferimento per riempire di contenuto la regola generale della buona fede, che deve ispirare la decisione datoriale e, pertanto, i criteri indicati nel suddetto art. 5, L. n. 223/91, possono anche essere derogati e sostituiti da altri che il datore di lavoro ritiene di dover preferire e che hanno uguale patente di legittimità, purché ritenuti meritevoli di considerazione.
I divieti di licenziamento
Il datore di lavoro, prima di dar corso al licenziamento per gmo (sussistendone ovviamente i presupposti di legittimità), deve altresì avere l’accortezza di verificare l’esistenza di situazioni, attinenti al lavoratore, ostative al recesso, ovvero:
- matrimonio: il licenziamento, in base all’art.35, D.Lgs. n.198/06, non può essere effettuato dal giorno della richiesta di pubblicazioni fino a un anno dopo la celebrazione del matrimonio. La stessa norma prevede, però, come al datore di lavoro sia data facoltà di provare che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo di cui sopra, è stato effettuato non a causa di matrimonio, ma per una delle seguenti ipotesi:
- colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
- cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
- ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.
Al riguardo è opportuno ricordare che, la presunzione concernente l’avvenuta intimazione per causa di matrimonio del licenziamento della lavoratrice – disposto nel periodo compreso tra la data della richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione delle nozze – riguarda ogni recesso che sia stato disposto dal datore di lavoro nell’arco temporale indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la “decisione” di recesso sia stata attuata, con conseguente irrilevanza del periodo di preavviso con scadenza posteriore; inoltre, anche in forza di un’interpretazione della norma nazionale conforme alla normativa comunitaria sulla parità di trattamento tra uomo e donna, deve ritenersi nullo il licenziamento per causa di matrimonio intimato al “lavoratore”, superandosi in tal modo il dato letterale dell’art.35, D.Lgs. n.198/06, nella parte in cui riferisce la tutela esclusivamente alle donne lavoratrici;
- gravidanza e congedi parentali: il divieto opera dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino in base all’art.54, D.Lgs. n.151/01, ma, anche in questo caso, tale nullità del licenziamento non opera nei casi di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta e ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine ed esito negativo della prova.
È, altresì, vietato il licenziamento intimato al lavoratore che abbia fruito del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso e fino al compimento di un anno dell’età del bambino, nonché quello causato dalla fruizione del congedo parentale e per malattia da parte della lavoratrice e del lavoratore. Si deve tenere presente, inoltre, come il licenziamento irrogato alla lavoratrice in stato di gravidanza sia nullo, anche se la dipendente non abbia informato il datore del proprio stato;
- infortunio o malattia: in base all’art.2110 cod.civ., il divieto di licenziamento dura per tutto il periodo stabilito dalla legge o dai contratti collettivi;
- l’attività sindacale, la partecipazione a scioperi, il credo religioso o politico del dipendente possono integrare, anche nel caso il gmo sia esistente, la fattispecie del licenziamento discriminatorio, con la conseguente nullità dello stesso in base all’art.18, co.1, Statuto dei Lavoratori, e in base all’art.2, D.Lgs. n.23/15: in tali casi la tutela apprestata dall’ordinamento è quella “reintegratoria forte”, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, dalla data di assunzione o dalla categoria rivestita.
Bisogna, altresì, porre attenzione al licenziamento per gmo del disabile assunto obbligatoriamente: in tale evenienza, in base all’art.10, L. n.68/99, che stabilisce come, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, il datore di lavoro possa richiedere (alla competente “commissione invalidi” distrettuale dell’Asl) che vengano accertate le condizioni di salute del disabile, per verificare se, a causa delle sue minorazioni, possa continuare a essere utilizzato presso l’azienda; il rapporto di lavoro può essere risolto solo nel caso in cui, anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda.
Le conseguenze del licenziamento per gmo in sintesi
Qualora l’imprenditore decida, ritenendone sussistenti i presupposti, di procedere a un licenziamento per gmo può essere utile che lo stesso abbia il quadro, almeno indicativo, delle tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.
Nel caso di licenziamento di lavoratore in stabilità reale e assunto prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n.23/15 e del contratto “a tutele crescenti”), l’art.18, co.7, prevede la sanzione della reintegrazione e dell’indennità risarcitoria (nell’importo massimo di 12 mensilità), in caso di “manifesta insussistenza” del motivo oggettivo posto dal datore di lavoro ovvero per difetto di giustificazione circa “il motivo oggettivo consistente nell’idoneità fisica o psichica del lavoratore”, cioè quando il licenziamento sia stato intimato “in violazione dell’art.2110, secondo comma, codice civile”. Nelle altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo – ipotesi in cui la giurisprudenza ha collocato la violazione dell’obbligo di repêchage – il giudice del lavoro, eventualmente adito, applicherà solo la sanzione risarcitoria da 12 a 24 mensilità “dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti”.
Tale norma si applica però solo ai “vecchi assunti”, mentre per i “nuovi assunti” dal 7 marzo 2015 in poi si applica – in caso di licenziamento per gmo – la previsione dell’art.3, D.Lgs. n.23/15. Come noto, tale articolo, al co.1, qualora il giudice, all’esito del giudizio, rilevi l’assenza di gmo del licenziamento “dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.
Tali regole valgono per i dipendenti di imprese con più di 15 dipendenti nella sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo al quale era addetto il lavoratore licenziato, o con più di 15 dipendenti nello stesso comune o, comunque, con più di 60 dipendenti (si applicano anche se l’imprenditore agricolo ha più di 5 dipendenti). Per i licenziamenti economici dei lavoratori assunti dal 7 marzo (o il cui contratto a tempo determinato o di apprendistato sia stato trasformato a tempo indeterminato, o ancora per i dipendenti assunti
precedentemente da datori di lavoro che in seguito a nuove assunzioni abbiano integrato il requisito occupazionale di cui all’art.18, L. n.300/70) è, quindi, sempre esclusa sia la reintegrazione nel posto di lavoro – tranne il caso che il licenziamento per gmo celi un licenziamento discriminatorio o ritorsivo – sia la discrezionalità del giudice sull’ammontare dell’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo.
L’art.4, D.Lgs. n.23/15, prevede poi, in caso di vizio formale consistente in “violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge n.604 del 1966”, che le tutele siano dimezzate con la previsione di una sola mensilità risarcitoria per anno di servizio, con un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità. Si deve ricordare, inoltre, come, per i nuovi assunti delle piccole imprese con meno di 15 dipendenti, il D.Lgs. n.23/15 preveda, entro il limite massimo risarcitorio di 6 mensilità e minimo di 2, il dimezzamento delle indennità previste per i lavoratori dipendenti di aziende con più di 15 dipendenti.
In caso di violazione dell’obbligo di indicazione o specificazione dei motivi del licenziamento economico, l’indennizzo a favore dei “nuovi assunti” delle piccole imprese sarà pari a mezza mensilità per anno di servizio, con un minimo di una mensilità e un massimo di 6. In questo caso, si è di fronte a una tutela ancora inferiore rispetto alla già limitata “tutela obbligatoria” prevista per le piccole imprese dall’art.8, L. n.604/66.
Per i lavoratori “nuovi assunti”, quindi, in caso di violazione dell’obbligo di repêchage e di conseguente illegittimità del licenziamento per tale mancanza, le sanzioni sono ora automaticamente e rigidamente determinate dal D.Lgs. n.23/15, senza più discrezionalità per il giudicante.