UTILIZZO IMPROPRIO DEI PERMESSI EX L. N.104/92

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Premessa

La sentenza n. 5574 del 22 marzo 2016 della Cassazione, Sezione Lavoro, interviene a dare continuità a quella giurisprudenza che negli ultimi anni si è occupata degli abusi derivanti dall’utilizzo dei permessi della L. 104/92, finalizzati all’assistenza ai familiari portatori di handicap.

Per comprendere l’importanza dell’orientamento dei giudici sul tema, è necessario, preliminarmente, avere un quadro completo del problema.

La Legge n.104/92 nasce in attuazione dei principi costituzionali che tutelano i diritti, l’integrazione sociale e l’assistenza delle persone affette da disabilità.

In realtà ci sono decine di migliaia di dipendenti, pubblici e privati, che dispongono di permessi retribuiti fino a tre giorni al mese, che dovrebbero utilizzare per accudire un parente stretto, affetto da gravi patologie, ma in realtà ne abusano per altri fini personali, danneggiando così aziende, colleghi e INPS.

I numeri rappresentano bene la realtà.

In Italia le assenze dal lavoro per malattia, nel pubblico come nel privato, sono oltre il doppio rispetto alla media europea, mentre è quasi tripla l’incidenza dei congedi della L. 104/92: oltre il 10% dei dipendenti pubblici e più del 7% di quelli privati, cioè un totale di oltre 1,3 milioni di persone, per 5 milioni di ore lavorative perse all’anno e un costo per l’Inps di 725 milioni. Di più, da una ricerca del Centro studi di Confindustria i danni alla produttività delle aziende ammonterebbero a 3,2 milioni all’anno.

Eppure la L. n.104/92 è uno strumento importante, forse l’unico che ci vede allineati ai più avanzati sistemi di welfare europei. Il problema, come spesso accade nel nostro Paese, è che i controlli sono pochi e gli abusi sono supportati da una forma di lassismo che porta a non reagire neanche davanti a scandali di vasta portata, come spesso, negli ultimi tempi, viene riportato dalla cronaca. Nemmeno i Legislatori che, recentemente, si sono occupati della riforma del lavoro e della riforma della Pubblica Amministrazione hanno affrontato il problema, pur in presenza di dati così allarmanti.

Davanti a uno scenario così sconfortante vi sono le esigenze delle aziende, che devono destreggiarsi fra la necessità di avere strumenti di verifica, e la normativa, in primis lo Statuto dei Lavoratori, che limita i controlli sui dipendenti o li ammette solamente se si sospetta un danno patrimoniale. La Cassazione, nel merito, ha più volte stabilito che, oltre a furti e danneggiamenti, le assenze immotivate rientrano nella casistica. La linea delle varie sentenze si è consolidata non solo nel ritenere che il dipendente che utilizza i permessi ex L. n.104/92 per fini diversi da quelli assistenziali commette infrazione disciplinare, punibile fino alla massima sanzione del licenziamento, ma che si può configurare la rilevanza penale per reato di truffa nei confronti dell’Istituto previdenziale e del datore di lavoro.

I “furbetti” della 104, infatti, non solo danneggiano l’azienda con le loro assenze immotivate, ma l’intera collettività, sulla quale si riversano i costi derivanti dagli abusi a discapito proprio di quelle persone e famiglie che ne hanno veramente bisogno.

I controlli sulla fruizione di permessi ex L. n.104/92

Data la portata del fenomeno è inevitabile che le aziende, negli ultimi anni, si siano attrezzate, nell’ambito del potere di controllo a loro demandato, mettendo in atto azioni di verifica nei confronti dei propri dipendenti che usufruiscono dei permessi ex L. n.104/92. L’interrogativo sorge in riferimento al divieto di controllo previsto dallo Statuto dei Lavoratori sull’attività degli stessi, sia da parte di guardie giurate e personale addetto alla vigilanza che tramite impianti audiovisivi (artt. 2,3,4, L. n.300/70), al fine di tutelarne la libertà e la dignità personale.

In questo caso, però, l’orientamento della giurisprudenza va nella direzione che il divieto di controllo di cui allo Statuto dei Lavoratori si limiti allo svolgimento delle mansioni lavorative.

Nel nostro caso, invece, un’eventuale attività di verifica è finalizzata ad accertare che il dipendente non metta in atto comportamenti scorretti, che possono far venir meno quel rapporto di fiducia che è elemento essenziale del rapporto di lavoro subordinato. Inoltre, il datore che concede tali permessi deve tenerne conto nell’organizzazione complessiva del lavoro, sia per la sostituzione del dipendente nei giorni di assenza sia economicamente, in quanto anticipa l’indennità per conto dell’Inps.

Visto che la violazione dei permessi ex L. n.104/92 è suscettibile di rilevanza penale, la giurisprudenza ritiene che, quando vi siano fondati sospetti di abuso, il dipendente è passibile di controllo anche attraverso un investigatore privato.

Perché le prove siano valide in giudizio, occorre però che siano raccolte al di fuori dal posto di lavoro, con la possibilità di verificare il tempo impiegato per l’accudimento del familiare disabile, avendo cura di escludere ogni immagine o video che possono invadere la privacy.

Quando il materiale raccolto dall’impresa sia conforme a detti principi, può scattare il licenziamento per giusta causa, al quale di solito segue l’opposizione del dipendente. I servizi investigativi possono rappresentare un costo significativo per l’azienda, ma allo stesso tempo assicurano la possibilità di un riscontro oggettivo e producibile nell’aula del Tribunale. Data la delicatezza della situazione, è evidente che il datore di lavoro dovrà affidare l’incarico investigativo ad agenzie altamente qualificate.

La sentenza di Cassazione n. 5574/16

Proseguendo l’analisi sulla copiosa giurisprudenza degli ultimi anni, volta a contrastare l’abuso o il distorto utilizzo dei permessi finalizzati all’assistenza dei familiari disabili, e visto il consolidato orientamento dei Tribunali, si rileva, a latere, un incremento di soluzioni a dette controversie in sede extragiudiziale.

Ora, oltre ad aver chiaramente definito sia la rilevanza disciplinare che penale dei comportamenti che abusano della L. n.104/92, la Corte di Cassazione si è espressa con la sentenza n. 5574 del 22 marzo 2016, ritenendo legittimo il licenziamento del lavoratore, che, usufruendo di tali permessi retribuiti, li utilizzi per un tempo inferiore a quello concesso per l’assistenza al parente.

Nel caso specifico, l’azienda aveva licenziato per giusta causa un lavoratore che, nelle tre giornate dedicate ai permessi ex L. n.104/92, si recava effettivamente presso il domicilio del familiare da assistere, ma soltanto per un totale di 4 ore e 13 minuti, pari al 17,50% del tempo totale concesso. In un giorno, addirittura, il dipendente non si era nemmeno recato presso il parente.

Nella sentenza n.112 del 7 luglio 2014, il Tribunale di Lanciano aveva ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare e aveva condannato la società al reintegro del lavoratore e al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dall’ultima retribuzione globale di fatto. A detta del Tribunale, il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare in giudizio che il dipendente non avesse realmente prestato assistenza al familiare nel tempo della sua permanenza presso il domicilio dello stesso, precisando che la funzione assistenziale che legittima la fruizione dei permessi della L. n.104/92 non richiede un intervento permanente e continuativo, tanto più che, nel caso specifico, il lavoratore aveva provato di aver prestato tale attività nei confronti del disabile.

Sono stati, quindi, ritenuti validi dal giudice gli elementi di prova forniti dal lavoratore, quali:

  • l’effettiva assistenza al disabile per alcune ore nelle giornate di permesso;
  • la mancanza di occupazioni diverse con essa incompatibili;
  • l’accertata volontà dell’assistito, che lo avrebbe congedato poco dopo il suo arrivo;
  • l’assenza di precedenti disciplinari a carico del lavoratore;

inducendolo a concludere per la non proporzionalità della sanzione disciplinare del licenziamento rispetto agli atti contestati.

Pertanto, il recesso doveva considerarsi illegittimo, con le conseguenze risarcitorie previste dall’art.18 St.Lav.

Con sentenza n.737, pubblicata il 22 settembre 2014, la Corte d’Appello di L’Aquila, in riforma della recedente, accoglieva il reclamo dell’azienda, ritenendo che il comportamento del dipendente dovesse essere considerato “grave violazione del vincolo fiduciario insito nel rapporto di lavoro”, in quanto, vista la parziale necessità di assistenza del familiare, lo stesso avrebbe dovuto rendersi disponibile nei confronti dell’azienda e, pertanto, la decisione della Corte trova fondamento “nell’evidente intenzionalità della condotta e dalla natura della stessa, indicativa di un sostanziale e reiterato disinteresse del lavoratore rispetto alle esigenze aziendali e dei principi generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, senza che potesse rilevare in senso contrario, stante l’idoneità della condotta a ledere il rapporto fiduciario, la sussistenza di un marginale assolvimento dell’obbligo assistenziale”.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n.5574/16 in commento, ha confermato la decisione della Corte d’Appello di L’Aquila, respingendo tutti i motivi del ricorso e concentrandosi sul fatto, fortemente difeso dal lavoratore, che lo stesso non aveva messo volontariamente in atto un comportamento elusivo, in quanto si era effettivamente recato presso l’abitazione del parente per rendere la prestazione assistenziale, sia pure per un tempo limitato, e che comunque tale comportamento non fosse di tale gravità da integrare la sanzione massima del licenziamento. La Suprema Corte, invece, nel ribadire l’orientamento secondo cui il “permesso

104” deve essere utilizzato esclusivamente per l’assistenza per tutto il tempo per il quale è concesso, ha ritenuto che “dagli indici di fatto accertati nella sentenza impugnata, sia relativi alla percentuale del tempo destinato all’attività di assistenza rispetto a quella totale dei permessi, sia relativi ad altre modalità temporali in cui tale attività risulta prestata” la presenza di un’“evidente, quanto anch’essa incontestata irregolarità sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza”.

Per tali motivi veniva confermata la legittimità del licenziamento.

La portata di questa sentenza va al di là della conferma della “linea rigorosa” espressa dalla giurisprudenza di questi ultimi tempi e apre un altro capitolo sulle attività che possono essere comprese o meno nel concetto di assistenza.

Si pensi, ad esempio, a una madre che accudisce un figlio disabile e, oltre alle strette necessità della persona, deve organizzare la vita familiare, sicuramente penalizzata dalla situazione, come fare la spesa o altre incombenze. Probabilmente l’intenzione della Corte non è quella di restringere il campo a una prestazione legata esclusivamente alla persona, ma, piuttosto, intesa a verificare che colui che beneficia dei permessi deve assicurare all’assistito un costante ed effettivo supporto.

Conclusioni

La giurisprudenza degli ultimi anni, ai suoi massimi livelli, ha contribuito in modo significativo a ribadire un orientamento volto alla legittimazione della sanzione del “licenziamento per giusta causa” e la rilevanza penale per “danno arrecato allo Stato e all’azienda” nei confronti di quei dipendenti che, in frode alla legge, usufruiscano delle agevolazioni della L. n.104/92 per motivi privati estranei alla finalità di assistenza a cui sono destinati.

Certo è che non si può pensare di risolvere il problema ricorrendo a un utilizzo massiccio delle agenzie investigative per “smascherare gli abusi”, in quanto non tutte le aziende possono premettersi i costi relativi all’acquisizione delle prove. Tuttavia, la recente e quasi univoca impostazione dei Tribunali sul tema dovrebbe indurre chi legifera e chi vigila sull’applicazione della legge ad avviare azioni massicce di contrasto a tale indegno fenomeno, in particolare in quei settori dove i numeri sono più significativi, quali la scuola e il pubblico impiego e nei territori dove si rileva un utilizzo percentualmente molto al di sopra della media nazionale.

Non dobbiamo trascurare l’effetto deterrente dei controlli. Attivare, da parte dell’Inps, azioni organizzate congiuntamente a datori di lavoro pubblici e privati potrebbe far parte di quella nuova politica della legalità da perseguire, affinché le risorse non vadano disperse inutilmente, ma siano effettivamente destinate agli alti scopi per i quali la legge le ha create.

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